Lo scrittore Fortunato Seminara è morto a ottantun anni, il 1° maggio a Grosseto, dove si trovava presso un figlio. La sua salma è stata trasportata a Maropati, il paese della provincia di Reggio Calabria dove egli era nato nel 1903 e dove aveva trascorso quasi tutta la sua vita.
Il primo romanzo di Seminara, “Le baracche”, era stato pubblicato nel 1942 da Longanesi, che allora dirigeva per Rizzoli la collana “Il sofà delle muse”; credo fosse stato scritto già parecchi anni prima; ma lanciandolo in quel momento Longanesi ne faceva uno dei preannunci del nuovo clima letterario, cioè di quello che veniva chiamalo già allora (quasi prima che esistesse) il neorealismo. In Seminara l’amalgama proprio del neorealismo tra stilizzazione novecentesca e tematica sociale delle classi povere si collegava più direttamente che in altri alla tradizione del verismo paesano meridionale. Ciò che lo scrittore calabrese portava di suo era un ritmo inferiore amaro e come tormentato da un oscuro rovello. Ciò si vide soprattutto (più che nella “Masseria*”, uscito nel dopoguerra da Garzanti con ambizioni di romanzo sociale di vasto impianto) nel “Vento nell’uliveto” ( 1951) che, rifacendosi alla sua esperienza diretta, dava la migliore misura d’un lirismo contenuto nelle situazioni e nette cose. Recensendo questo romanzo, Fortini aveva ricordato il Tolstoj del “Mattino d’un proprietario di campagna”. Il libro era uscito nei Gettoni di Vittorini, collana dedicata agli esordienti ma in cui venivano ammesse anche opere d’autori già noti purché contenessero un accento inedito, una novità rispetto alla loro opera precedente e in assoluto. Vittorini presentava “Il vento nell’uliveto” in esplicita polemica con quello che il neorealismo era diventato, sottolineando in Seminara “un senso dell’universale che il tono sommesso e impensierito rafforza invece di attenuare”.
Sempre nei Gettoni uscì anche, nel 1954, “Disgrazia in casa Amato”, che è una cupa storia d’odi paesani: un padre di famiglia per una misteriosa vendetta viene sfregiato al volto con un colpo di coltello; si chiude in casa e si mette a letto, come paralizzato dalla vergogna e dallo sconforto; moventi e colpevoli restano nell’ombra; solo un ‘atmosfera familiare assediata da una tortura morale domina il racconto. Qui la “perplessa mestizia” del libro precedente diventava — secondo le parole di Vittorini — “cosi accanita e assillante, da rendere drammatica la storia pur non nuova che vi si narra, perché il dramma in una situazione di barbarie paesana oggi si ha solo se vi si partecipi con orrore civile, e con animo ora attratto e ora avverso, insomma amletico”.
Seminara era un uomo tarchiato e taciturno, un volto corrucciato che ricordava un po’ il suo conterraneo Corrado Alvaro, ma con capelli crespi e occhi pungenti. Ci eravamo conosciuti agli inizi degli Anni Cinquanta e lo consideravo un coetaneo, sia pur un poco più anziano, perché il suo atteggiamento non era diverso da quello di tutti noi che avevamo esordito nel dopoguerra, con la stessa soggezione verso gli scrittori delle generazioni precedenti che potevano emettere sentenze inappellabili su quello che scrivevamo. Solo avvertivo in lui una concentrazione più ostinala, un silenzioso orgoglio. Un giorno lo sentii dire: *Devo mettermi all’ opera, perché ho un programma di cose da scrivere tra i cinquanta e i sessant’anni. Trasalii. Mai avevo pensato che avesse tanti anni più di me. Quelli che per me erano allora gli “anziani”, i «maestri», erano quasi tutti molto più giovani di lui. Seminara aveva dietro di sé anni oscuri di vita di paese, di attese del postino con la risposta dell’editore che non arrivava mai.
I miei rapporti con Seminara erano soprattutto epistolari, legati all’invio di manoscritti di cui alcuni non arrivavano alla pubblicazione, fatto che non mancava di provocare rancori e lunghi intervalli di silenzio. Invano cercavo di scoraggiare una delle sue ambizioni, che era il romanzo di epica sociale sul tipo delle “Terre del Sacramento” di Jovine, con personaggi oratori e profetici, che certo non corrispondeva alla sua vera vena. Con soddisfazione avevo potuto invece scrivere qualche mese fa al vecchio amico malato che avevo letto con piacere il suo ultimo romanzo, “L’Arca”. E ‘ancora inedito, e l’avevo letto in manoscritto (anche se ho definitivamente smesso il mestiere di lettore di manoscritti). La vitalità del protagonista, un mulattiere che riesce dal nulla a metter su una raffineria d’olio per finire inghiottito dagli intrallazzi politici e burocratici del capoluogo, e l’attualità del tema: un “Mastro Don Gesualdo” dell’epoca del boom economico e delle speranze deluse dell’industrializzazione in Calabria, fanno l’interesse del libro. Nell’opera di Seminara si potrà dunque seguire un mezzo secolo di storia del profondo Sud e soprattutto gli accenti d’una voce grave e pausata, dal profondo di un’anima ricca di nobiltà e di ritegno.