Maffia – In che direzione ti sei mosso all’inizio della tua carriera?
Seminara – La direzione di vita o la direzione letteraria?
L’una e l’altra insieme.
Ti diro’ che io fui in seminario, frequentai le prime classi del ginnasio in seminario e mi ricordo che il primo anno coincise con l’autunno del primo anno di guerra. La guerra (quella del 15-18), fu dichiarata in maggio, io entrai in seminario nell’ottobre dello stesso anno e tu sai che l’avviamento agli studi è un fatto che non riguarda l’individuo soltanto nella nostra società. Forse è meglio dire che non riguarda l’individuo soltanto. Nella nostra società calabrese le famiglie, anche quelle contadine o di piccoli proprietari, com’era la mia, appena raggiungevano una briciola di benessere tentavano la strada del miglioramento sociale cercando di avviare almeno un figlio agli studi ecclesiastici.
Questo comportamento appartiene alla mentalità di tutto il meridione, non soltanto alla Calabria. Tu credi che qualcosa d’allora sia mutato o modificato?
Il mutamento sì, ma è difficile stabilirlo, toccarlo con le mani. Non c’è più bisogno di sacrifici ora per migliorare le condizioni di un figlio. La scolasticità è diffusa e non per migliorare moralmente; la scuola dell’obbligo ha portato forse un po’ più d’istruzione, ma direi cultura niente, questa viene dopo, è un’altra cosa.
E allora, per differenziarsi, per distinguersi dagli altri dal punto di vista sociale, che tipo di investimento fanno adesso per i figli i nostri calabresi?
Credo che il mezzo più corrispondente alle concezioni del nostro tempo sia quello economico: industria e commercio. Naturalmente l’avviamento dei figli agli studi porta un certo prestigio, ma non è l’unico mezzo.
Quando avviarono te agli studi come la prendesti? Come un condizionamento o come una liberazione dall’ambiente?
Io desideravo studiare, andare agli studi. Lo sentivo come un’aspirazione quasi naturale. A quell’età però non potevo calcolare il miglioramento, che poi sarebbe venuto. Non pensavo alla carriera o ad altro, era un bisogno, il mio bisogno d’istruzione. Sì, proprio un bisogno naturale.
Quando ti sei reso conto di essere scrittore?
Scrittore. Ti dirò che cominciai a scrivere delle poesie durante il ginnasio, ma erano esercizi, esercizi scolastici. La vocazione a scrivere, la vera vocazione a scrivere, mi venne durante l’emigrazione in Svizzera.
Sei stato molto tempo in Svizzera?
Il 1930 e il 1931. Tra la Svizzera e la Francia.
Avesti degli incontri importanti lì?
Importanti no, non direi importanti. Collaboravo a Ginevra all’organo del partito socialista, “Le Travail” e conobbi il direttore del giornale, Nicol, che fu anche capo del governo cantonale di Ginevra. Questa collaborazione mi serviva anche per vivere perché dalla casa ricevevo poco.
Perché andasti in Svizzera in quegli anni? Fu in esilio volontario?
Era per liberarmi dalla dittatura fascista.
Perché ti perseguitava, ti dava dei fastidi?
Persecuzioni non direi. Ero in una organizzazione clandestina e vivendo qui, in un villaggio calabrese, era facile sfuggire all’attenzione dei gerarchetti. Piuttosto ebbi paura, al ritorno, di cadere nelle persecuzioni, nelle vendette dei gerarchi locali.
Perché loro sapevano che eri andato…
Il mio esilio destò dei sospetti e qualche cosa trapelò anche della mia attività benché io firmassi con pseudonimi. Per precauzioni mi ritirai in campagna. Di lì cominciò il mio “ritiro”.
Diciamo la tua vocazione campagnola.
No. Diciamo il mio amore per la terra. Per sottrarmi alla vigilanza fascista mi rifugiai in campagna e cominciai ad amarla. Da ragazzo non lo sopportavo. Mio padre infatti mi chiamava “cane da paese”. Io avevo bisogno di contatti umani, di compagni, di giochi.
Ricordi i pensieri, i sogni, i progetti di allora? Le prime letture, i primi incontri?
Vedi, fino ad allora conoscevo appena quelle poesie e quelle prose che si leggono a scuola. All’estero sono venuto poi a contatto con la cultura europea.
Questo è un fatto importante. Ci fu un urto, credo. E in cosa consistette?
Avvenne una rivoluzione dentro di me.
Che tipo di rivoluzione?
Si rinnovarono tutte le mie idee.
Quindi rinnegasti le tue radici o ci fu un innesto?
Né rinnegazione né innesto. Solo rinnovamento.
Cambiò il tuo atteggiamento spirituale?
Anche quello. L’esilio giova al raccoglimento, alla meditazione, alla maturazione del pensiero e del modo di sentire.
Nella tua vita hai fatto lunghe letture, hai avuto incontri importanti e meno importanti. Ritieni che qualcuno di questi sia stato particolarmente determinante?
Si, Dostoevsky.
Dostoevsky?
Fui ospite per alcuni mesi, nella seconda parte del mio esilio a Ginevra, di un professore universitario che mi stimava. Mi tenne a casa sua altrimenti avrei avuto molte difficoltà, era difficile trovare lavoro. Mi fece occupare da un orologiaio, ma la gran parte del tempo la trascorrevo a leggere, Dostoevsky, in francese. Ci avevo già provato in Italia e mi aveva spaventato, terrorizzato. Ora andava bene. Poi lessi Goethe, molti altri tedeschi, molti russi e Tolstoj, Balzac, Zola.
E il dualismo Tolstoj – Dostoevsky da che parte ti ha visto?
Io sono stato più diviso tra Dostoevscky e Gogol. Ma tra Dostoevsky e Tolstoj non avrei saputo scegliere. Il primo mi introduceva in un mondo sotterraneo, segreto e mi spingeva alla profondità; il secondo mi apriva orizzonti vasti dell’umanità, della campagna, della gente di campagna. Tutti e due, però, erano in un certo senso il mio mezzogiorno. Sono stati per me due autori complementari. Rispondevano al mio mondo meridionale, calabrese, ma erano due chiavi diverse.
Vi sono alcuni che anche ora affermano esserci delle corrispondenze tra il mondo russo e calabrese.
Si, hai ragione. Se ti facessi vedere la lettera che Alvaro mi scrisse dopo aver letto le Baracche, si richiamò proprio a Dostoevsky.
Alvaro amava molto i russi…
Certamente, scrisse infatti, se non ricordo male: “ E’ un mondo affascinante, fatto di riti, di scavi profondi, quello russo, ed è così simile al nostro calabrese”.
Lui era stato in Russia.
Si.
Ma incontri personali che abbiano contato?
Incontri personali no. Io vivevo quasi clandestino a Ginevra, in casa di questo professore, e collaboravo al giornale socialista ma non incontravo nessuno. Il professore mi sconsigliò anche di andare a Parigi, mi sarei esclusa la via del ritorno; lì si incontravano i fuoriusciti, e i contatti, si sa…Da Ginevra andai a Marsiglia. Trovai grandi difficoltà. Nel frattempo ricevetti posta da casa. I miei genitori si sentivano soli, io ero figlio unico, era meglio se tornavo a casa. Durante il soggiorno a Marsiglia scrissi alcuni racconti, ancora inediti.
Hai scritto altro in quell’epoca?
Un opuscolo sull’Italia, al tempo di Ginevra. Parlavo della situazione italiana. Non ho più ritrovato l’opuscolo, sarà rimasto nella biblioteca del professore.
Come si intitolava l’opuscolo?Di che cosa parlava in particolare?
Parlava della Calabria, delle difficoltà di comunicazione e mi ricordo una frase. Allora c’era stato un attentato a Mussolini a Bologna, Anteo, si chiamava Anteo questo ragazzo che aveva attentato e che poi fu maciullato e torturato dai militi che lo presero sull’atto, “ Anteo tirò un colpo di rivoltella”; parlavo anche di questo nell’opuscolo.
Perché seguisti gli studi di Giurisprudenza?
Era una tradizione in Calabria. Un figlio avvocato era un grande prestigio. Lo sai che la mia tesi di laurea l’ho fatta in Economia sui trust?
Ritieni di aver avuto molti amici nella tua vita o molti nemici?
Pochi amici, ma buoni, sai? Ho avuto anche delle grandi prove d’amicizia. Forse ho anche nemici, ma non li conosco.
Mettiamo che ci fossero dei nemici, che cosa te li avrebbe procurati?
Non ho idea. Io non ho fatto male a nessuno, non ho tendenza a fare del male. Non ho, come dire, ragione di contrasto né economico né di altro genere. Non ho mai avuto scontri frontali, contrasti astiosi.
Come vedevi la Calabria a venti anni, come la vedi ora?
Ho avuto delle incomprensioni ed ho sentito che qualcuno ce l’aveva con me. Pensa a un fatto recente. Dopo che mi hanno incendiato la casa, come sai, mi hanno dato un contributo per la biblioteca perduta, per la casa no. Ho avuto qualcosa dalla provincia di Catanzaro, dal comune di Catanzaro, dalla Provincia di Reggio Calabria. Non un centesimo dal comune di Reggio e dalla Regione. Tutto a mezza voce.
A mezza voce? Che significa?
A mezza voce. Ti dirò un’altra cosa, per esempio. Quando fu istituita la Regione Calabria si parlò di un mio incarico a consulente culturale. Al tempo in cui c’era Valentini avevano fatto il decreto. Fu ripetuto con Aragona ma non se ne fece niente. Eppure tutti i capi dei gruppi consiliari si premurarono di dirmi che erano d’accordo. Poi mi chiesero un programma, che presentai, e mi convocarono per le dovute spiegazioni. All’ultimo momento andò tutto per aria perché si opposero i comunisti, si opposero perché io proponevo un teatro stabile calabrese.
Perché si opposero?
Perché loro hanno una organizzazione, l’ARCI, che subito hanno visto in pericolo. Pensavano di perdere spazio. E poi la mia era appena una proposta.
Vorrei ripeterti la domanda di prima: come vedevi a venti anni la Calabria? Come la vedi adesso e come vedevi a venti anni la letteratura italiana, gli scrittori italiani e come li vedi adesso?
Bè, ti dirò, tu vuoi sapere di cinquant’anni fa. In Calabria era l’oscurantismo, era la degradazione economica, incredibile, ora. Le condizioni economiche, sociali e culturali erano di una elementarità…
E Misasi, Siciliani, Alvaro non rappresentavano nulla?
Erano calabresi ma chi li leggeva in Calabria? Misasi, forse. Dovrò tenere una conferenza su Misasi all’Accademia Cosentina nel prossimo maggio ed ho avuto modo di studiarlo, di leggerlo e studiarlo. Misasi godette in vita di una notorietà che poi finì con la sua morte. Scriveva racconti un po’ romantici che concepivano la vita solo attraverso le lenti della borghesia nostrana. E ti dico un fatto, il padre di Alvaro sperava tanto che il figlio diventasse un altro Misasi.
Molto bello!
Il padre di Alvaro era un maestro elementare. Allora, oltre ai preti, solo i maestri, i professori potevano leggere. Erano l’élite. Del resto anche oggi, se si bada bene, la nostra cultura è delegata alle scuole, al corpo insegnante nelle scuole.
Credi ancora al corpo insegnante?
Ah, si, si!
Non hai il dubbio che quella scolastica sia una falsa cultura?
Forse è anche una falsa cultura, però la scuola, con tutti gli attuali difetti, resta ancora l’unico posto dove si diffonde. Ora ci sono le radio private. Sarebbero uno strumento formidabile di elevazione civile e intellettuale, di diffusione della cultura se fossero in mano di persone esperte.
Le canzonette sono la nuova cultura?
Se fossero nelle mani di chi sapesse sfruttarle al fine di proposta culturale, di promozione….
Dimmi, dal punto di vista umano, hai avuto un incontro davvero importante?
Ancora scrittori: Balzac, Zola, e poi ti dico un norvegese che scrisse un romanzo straordinario dal titolo La Fame. Io lo lessi in francese. Un libro che non si dimentica. Lui si chiama Knut Hamsun, mi fece una grande impressione. Eppure lo sai che poi passò ai nazisti?
Guarda caso, io sto scrivendo un saggio su Hamsun che nel 1920 è stato insignito anche del premio Nobel. Ha delle affinità con te?
Non mi ricordo. Sì, non mi ricordo.
Un nordico scoperto da un calabrese. Un bel titolo.
Estremo nordico. Mi fece impressione perché io, capisci, avevo inclinazione al realismo ed ero perciò sensibilissimo alle rappresentazioni realistiche della vita.
Vedo che la mia domanda sugli incontri la trascuri sempre. È come se volessi tacere nomi, situazioni culturali, non so…
Forse hai ragione, ma se penso a quei tempi mi ricordo solo di libri. Per esempio, prima che tornassi in Calabria, avevo letto I fratelli Rupe di Répaci, il primo volume. Gli altri poi non sono riuscito a leggerli. Di Alvaro ti dirò che mentre ero militare nel ’24 a Roma seguivo i suoi elzeviri sul “Mondo”, e se ne parlava tra di noi calabresi. Dopo lessi Ungaretti.
E Saba, Sbarbaro, Montale…
No, il premio Nobel Montale no. Però di lui mi ricordo questi versi: “ Non domandarci la formula che mondi possa aprirti/sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Cioè, che non siamo fascisti e non vogliamo il fascismo.
Credi veramente a questo impegno politico di Montale?
L’impegno della sua poesia…E poi noi antifascisti lo interpretavamo in questo modo. Anche Ungaretti lo guardavamo così. Prestavamo ai versi la nostra passione politica. In realtà forse le cose andavano diversamente. I fascisti cercavano di comprarsi i migliori, come si usa oggi nel calcio, e sai come succede in questi casi.
Chi altro si leggeva di poeti?
Campana. Era stato divulgato dal critico Enrico Falqui. Allora i critici avevano un peso enorme.
Lasciamo stare i poeti. Parliamo di romanzieri. A cominciare dall’inizio del secolo. Di Papini, Borgese, Bernari, Moravia, Vittorini, Pavese, Cassola, Bassani, Calvino etc. Che cosa ne pensi?
Guarda, Papini mi ha sempre suscitato, per la sua ambiguità politica e letteraria, sospetto e diffidenza. Papini, non lo considero un narratore, era un filosofo che romanzava la filosofia; lui negava che gli italiani fossero capaci di romanzo, ma lui aveva cercato di fare il romanzo della filosofia. Vedi Un uomo finito. E poi quella sua aria di pontefice che dava frustate a destra e a sinistra non lo potevo tollerare.
E degli altri?
Degli altri romanzieri non posso dire di aver imparato da nessuno.
Sì, ma come li consideri?
Di Moravia lessi Gli indifferenti. Fu una novità nella nostra narrativa.
E di questi nuovi, nuovissimi?
Il mio libro Le baracche, per riconoscimento di molti critici, inaugurò il neo-realismo e segnò una svolta. Mi fu pubblicato in ritardo nel 1942, ma lo avevo definito già nel 1934. Il mio libro segna il passaggio da narrativa di evasione e neo-realismo o realismo senza neo, come lo chiamo io.
Secondo te, a parte la tua distinzione tra neorealismo e realismo senza neo, perché molti critici attribuiscono la nascita del neorealismo in letteratura o della letteratura d’opposizione, a Gli indifferenti di Moravia, altri a Gente in Aspromonte, altri a I tre operai di Bernari e solo qualcuno a Le baracche?
Sono dei punti di vista, io non so dire.
Te lo chiedo perché l’arco di tempo in questo modo, i critici lo allargano troppo, lo fanno partire dal ’29, mentre sappiamo che in quell’epoca nasce l’ermetismo…
Piuttosto ci sarebbe da domandarci perché furono pubblicati Gli indifferenti e I tre operai e non fu possibile pubblicare Le baracche.
Che cosa puoi dirmi in proposito?
Il realismo di Le baracche è vero realismo. Quello di Bernari, Alvaro, Vittorini, Moravia, Pavese non era realismo che intaccava il regime o gli interessi del regime. Il fascismo voleva dare una patina di benessere, di società in cui tutti si stava bene, in cui regnava l’armonia generale. Io con Le baracche dimostravo che non si stava bene, rompevo questo mito a cui il fascismo era legato, il mito dell’armonia, del benessere.
Una domanda solita, forse inutile e banale. Ti sentiresti di dare dei consigli ai giovani narratori?
Ma, vedi, dare dei consigli non è facile, non ci sono delle regole da seguire, da preferire ad altre. L’unica cosa che posso dire loro è che restino vicino alla realtà. Restare vicino alla realtà sociale, partecipare alla vita sociale può essere la migliore fonte di ispirazione di uno scrittore.
Vuoi fare un esempio?
Essere fedeli, essere fedeli a se stessi anche.
Questo discorso può diventare generico se non ci caliamo in determinate realtà. Per esempio: io sono calabrese, ho molti legami con la Calabria, eppure sono affascinato da uno scrittore come Borges il quale, pare, non ha molte attinenze con la realtà. Egli gioca a fantasticare, insegue le sfumature del delirio…Trovi che sia uno scrittore inutile visto che è così lontano da ciò che tu dici?
Ti dirò che il regno della letteratura e della cultura, non può restringersi a schemi. Se dovessi dare un consiglio ai giovani che cominciano a fare la loro esperienza letteraria direi di tenersi vicini alla realtà, ma questo non vuol dire che debbano fotografare la realtà.
Certo, questo no.
Ma nell’elaborazione artistica della realtà si può anche sconfinare nel simbolo, nel mito. Sono numerose le vie che portano alla grande opera è vero, e c’entra il fattore personale dello scrittore che è capace di trasformare la realtà in maniera singolare a lui congeniale.
Dimmi, in che cosa consiste la grandezza di uno scrittore?
Riuscire a trasfigurare la realtà. La realtà grezza non è mai un’opera pregevole, non può essere mai un’opera d’arte.
Non ti pare che in questo modo comunque l’arte la imbrigliamo in uno schema?
Ci sono state delle fasi di evoluzione letteraria che hanno accompagnato o seguito l’evoluzione civile e storica della società. Il classicismo, a un certo momento, s’inaridisce e cede a una forma nuova. Ogni tempo ha la sua maniera d’interpretazione dei fatti sociali.
E’ significato qualcosa essere uno scrittore calabrese?
Essere uno scrittore calabrese è come dire italiano, europeo. Se si riesce a cogliere l’elemento universale delle cose non c’è più lo scrittore di una regione o di una nazione. Un’opera d’arte ha un valore solamente se rispecchia dei valori universali che esistono e che possono essere colti anche in un mondo.
Il migliore esempio è Joyce. Naturalmente ti riferivi a fatti …creativi.
Si capisce.
Ma per quanto riguarda la presenza del mondo letterario, la circolazione delle proprie opere, l’accettazione, che cosa ha significato essere calabrese? La logica dell’industria culturale non mi pare che accetti di buon grado coloro i quali non sono schiavi del sistema. Voglio dire: è la stesa cosa vivere a Milano, a Roma, a Torino, a Firenze, a Genova, o in Calabria?
No, certamente no. Però non bisogna illudersi che vivendo a Torino uno diventa un grande scrittore per il solo fatto di vivere a Torino. Se sei un grande scrittore puoi esserlo anche in Calabria. Incontri delle grandi difficoltà non essendo vicino alle fonti dell’editoria, della cultura, non avendo legami coi giornali, con le riviste. Puoi anche essere emarginato. Ma non bisogna illudersi che lo stare a New York o a Parigi dia un valore a chi non lo possiede.
Che cosa rimpiangi della tua vita?
Se ho un rimpianto nella mia vita è forse di non aver fatto più di ciò che ho fatto.
In che senso?
Di accorgermi oggi di questo avvicinarmi al tramonto senza aver compiuto un’opera che avevo ambizione di compiere, di non aver avuto la possibilità, di aver sciupato gli anni in cui c’erano gli impedimenti politici, di aver perduto un ventennio ( quello fascista) che, se da un lato mi ha maturato, dall’altro mi ha impedito l’esplicazione libera delle mie facoltà. Quello è stato un impedimento, è stato un grave impedimento. Immagina, me o Moravia, o un altro della mia generazione, senza il fascismo. Avremmo dato certamente delle opere più perfette.
Ritorniamo a te e alla tua opera. Vuoi parlarne? Che cosa volevi dare agli altri attraverso gli scritti? Quali dei tuoi libri ami? Perché?
Quando tornai in Calabria vissi in una campagna vicino ai miei genitori che erano dei contadini in mezzo ai contadini, mi immedesimai con loro, soffrii la loro sofferenza. Fino ad allora i contadini erano stati oggetto e non soggetto. Volevo provare che cosa significa. Mi sembrava giusto provare. Portare alla luce la loro vita, le aspirazioni, il modo di vivere, di pensare, mi parve che avesse un significato particolare, singolare.
In quale libro credi di essere riuscito a dire questo?
Nei racconti, ne Il vento nell’oliveto, ne La masseria. E’ questo terzo libro che formerebbe la trilogia, non quello pubblicato da Einaudi. Quella è una trilogia messa insieme per ragione di stile, sotto una ragione dello stile.
Invece, la trilogia vera?
Sarebbe Le baracche, La masseria, Terra amara.
E “ Terra amara” quando dovrebbe uscire? Se non sbaglio è ancora inedito.
L’editore ha detto che entro l’anno, in ottobre potrebbe uscire (1).
E l’unica cosa inedita che tu hai?
No, no, c’è poi quel romanzo che era di seicento pagine che io ho ridotto(2).
Perché l’hai ridotto?
Prima perché Einaudi mi ha detto che sarebbe stata un’impresa editoriale troppo grossa, e poi perché rileggendolo ho trovato che potevo ridurlo, perfezionarlo.
Perché poi non è uscito?
Perché ci sono state altre vicende. La mia malattia, per esempio, e poi il tempo per rivederlo e poi nel frattempo ho scritto un altro romanzo sulla dittatura, il cui personaggio principale, i personaggi principali sono un contadino e il dittatore, che poi sarebbe Mussolini. E’ un romanzo che si svolge a Roma ed è un dittatore come io l’immagino, con certi riferimenti, certe allusioni al tempo, un certo clima del tempo che lo fanno individuare come il dittatore italiano.
Come s’intitola questo romanzo?
Ancora non ha un titolo preciso. Pensa che io prendo un contadino alla fine del ventennio in Calabria, un contadino sciancato, mancante di una gamba, che ha perduto nell’emigrazione in America, nell’America del Sud, diciotto anni e poi se n’è tornato a casa con una gamba mancante. Questo contadino una sera al tramonto vede una stella a occidente, chiama la moglie e dice: “ Guarda quella stella, io devo seguire quella stella”. Quella stella lo porta a Roma. Ha una serie di avventure. Sì, arriva a Roma e passa per molte vicende. E’ il momento dell’anniversario della marcia su Roma. La celebrazione, l’adunata oceanica. Si sente l’ambiente di sospetto generale, di paura. Lui incontra un certo tipo strano che gli propone un attentato al Duce, per esempio, e allora vanno in S. Pietro ( Roma non può essere disgiunta da S. Pietro) e lì incappa in una guardia per colpa di certe frasi che gli sfuggono. Poi litiga e la guardia pensa che sia un soggetto interessante per la sua carriera. L’indomani il dittatore presenzia l’adunata oceanica. Compare al balcone, poi diventa un burattino, si trasforma e la polizia insegue il nostro soggetto, lo incolpa, e sottufficiali e ufficiali se lo rubano a vicenda. Insomma, questo contadino che viene dalla Calabria, da un villaggio della Calabria, diventa così un pericolo nazionale. All’ufficio politico lo ruba il capo della polizia, che ha contatto quotidiano con il dittatore e il dittatore si diverte di questo contadino, del suo modo di parlare. Insomma, di vicenda in vicenda questo contadino butta per aria la dittatura.
Mi fai pensare a un libro sudamericano, a Marquez.
Sì, L’autunno del patriarca, ma io non l’ho letto. Con la dittatura fascista in Italia c’eravamo ridotti a una repubblica sudamericana.
E a certe pagine di Manuel Scorza, di Onetti. Vuol dire che il Sud è Sud dappertutto. La letteratura sudamericana ha grande fortuna in questo momento. Ai nomi fatti se ne possono aggiungere molti altri. Come mai quella calabrese, nella accezione universale di cui dicevamo prima, non trova adesione e aperture?
Per certo paternalismo governativo, per certi tipi di gerarchi e di padreterni…
Parliamo degli altri tuoi inediti.
Ho questo altro romanzo che è la storia di una famiglia, come dice il Verga, presa dalle prime ambizioni di benessere, di ricchezza. Sono due mulattieri che man mano arricchiscono. Uno dei due poi ambisce a fare l’industriale, mette su una raffineria di olio. Questa raffineria non viene a compimento, ci sono delle complicazioni. Alla fine, come molti progetti da noi, molti progetti industriali, fallisce.
Sono personaggi che hanno qualcosa di…vinto o no?
Non è il verghiano. In qualche mio racconto si può fare il paragone tra alcuni miei personaggi e i personaggi di Verga, ma la differenza fondamentale, essenziale tra me e Verga, è questa: che l’uomo di Verga è solo, sia che sia ricco sia che sia povero, dominato dalla fatalità; ed è come l’uomo manzoniano, protetto dalla Provvidenza. L’uomo dei miei romanzi, il personaggio dei miei romanzi, è libero, sente la solidarietà di classe, vive in una società divisa in classi, è libero di scegliere, nei limiti delle libertà concesse dalla costituzione sociale; è libero di sentire la solidarietà degli altri uomini, della sua stesa classe. La concezione di classe nel Verga non c’è, non c’era. Questa è la novità della mia narrativa e questa è la differenza tra me e il Verga, anche se, ogni volta che si scrive di me, subito mettono in ballo Verga ed Alvaro come riferimenti necessari. Vedi anche il saggio di Olga Lombardi nel volume di Marzorati.
E come se ce l’avessi con i critici…
Io ho considerato l’uomo nei miei libri, in maggior parte contadino, ed ho parlato dei contadini. E’ lontanissima da me la concezione cattolica del simile, del pari. Ecco la differenza. E poi sono lontano dal paternalismo manzoniano e dal fatalismo verghiano.
So che sta per uscire in Francia, da Flammarion, uno dei tuoi romanzi, “ Il vento nell’oliveto”. Di fronte a che ti mette questa scoperta o riscoperta sapendo che i francesi non rilasciano facilmente il passaporto agli stranieri?
Ti dico che è una sorpresa lieta, l’arrivo di un riconoscimento che avrei dovuto ottenere prima. Ma anche tardivo è un riconoscimento che mi fa piacere. I miei libri erano stati tradotti già in inglese, portoghese e cecoslovacco. In inglese Il vento nell’oliveto, in portoghese Il vento nell’oliveto e Donne di Napoli e in cecoslovacco La masseria. C’è stato tempo fa un contratto per la trilogia einaudiana. Doveva stamparla il figlio di Gallimard, ebbi anche un anticipo. Poi andò tutto per aria; lui morì in un incidente automobilistico insieme con Camus. La vedova non mantenne il contratto e perdetti l’anticipo. Ma ripeto, io, come gli altri scrittori italiani, avrei dovuto arrivare prima al riconoscimento dei francesi, alla traduzione. Però ci arrivo bene, per fortuna. Hanno già cominciato la traduzione del Primitivo perenne che è il secondo racconto di Quasi una favola ed avrebbero intenzione di portarlo in teatro (3).
Quindi non sbaglio a dire che c’è nei tuoi confronti aria di scoperta?
Sì. Se si allarga l’interesse può portarmi quelle soddisfazioni a cui penso di avere diritto.
Senza dubbio, questo. Ma ora parliamo della casa che ti hanno incendiato con tutto quello che c’era dentro.
E’ stato un delitto rozzo, assurdo e bestiale. Io lo definisco così. Concepito da menti rozze e per una vendetta che ad uno sguardo, ad una considerazione superficiale è assurda, però a considerarla meglio ha residui di una nostra atavica civiltà di barbarie.
Che cosa hai perduto?
No, ti dico una cosa. Parlo di barbarie nel senso in cui Vittorini usò il termine nella introduzione a Disgrazia in casa Amato. Io poi non ho trattato i contadini in modo idilliaco, non ho rappresentato l’idillio, ma ho rappresentato il mondo contadino in maniera drammatica.
Come in effetti è?
Come in effetti è.
O perlomeno è stato.
E’ stato ed è ancora, è vero. Pensa alla faide che succedono in Calabria, a questa specie di genocidio, io credo forse aggravato in certo senso dalla civiltà dei consumi. Sono oscuri sentimenti atavici e queste coscienze, oscurate dall’ignoranza, portano alle aberrazioni.
La casa di Pescano mi piaceva…
Lì avevo, nel mio esilio, chiamiamolo così, campestre, maturato me stesso. Maturato me stesso come uomo di cultura e completato la mia preparazione e maturato il mondo che poi ho espresso nelle mie opere. Fu in quel ritiro, quella solitudine della campagna, che trovai me stesso.
Pescano fu anche il rifugio che tenne lontani i rumori del paese, della strada dove i bambini giocavano, dove le donne chiacchieravano da una finestra all’altra.
Sì, certo, lassù c’era silenzio assoluto e poi ho potuto vivere a contatto diretto con la gente di campagna e cosi ho potuto capire il dramma oscuro di questa gente che da noi, nel Mezzogiorno, è causa prima della disgregazione sociale.
Che cosa si può fare per far perdere le tinte fosche a questa drammaticità?
C’è da trovare una via di evoluzione economica che eviti gli errori delle industrie gigantesche, dell’accentramento industriale…
A che cosa ti riferisci?
Al Nord, al triangolo dove ormai sono avvenuti tanti fenomeni anormali. Mai sono state favorite le masse contadine però.
Mi vuoi dire che cosa hai perduto nell’incendio, o è un segreto?
Ho perduto tutto perché era la mia casa. Questa del paese l’avevamo abbandonata quando stavamo in campagna, ora l’ho riparata per poterci stare. Masseria, vestiti, biancheria, tutto mi hanno distrutto. Attrezzi, roba per la cucina, per le camere. Ma queste sono cose che potrei ricomprare, quello che invece non si può recuperare sono i libri, con le annotazioni. Quando io leggo un libro, lo annoto al margine, esprimo il mio giudizio. Tutto questo è perduto insieme ai manoscritti(4). Per fortuna essendo finita l’estate come ormai faccio dopo la morte dei miei, ero tornato in paese e il romanzo sul dittatore l’avevo portato con me per lavorarci durante l’inverno.
Nel 1974, se non erro, mi leggesti a Pescano alcune pagine di quel tuo romanzo di seicento pagine. Non mi volesti anticipare il titolo, perché? Puoi farlo ora?
Non lo posso rivelare nemmeno ora finché non sarà ultimato.(5)
Sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” stai pubblicando delle parti, perchè?
Ne estraggo dei racconti, mantengo l’unità, l’integrità. E poi pubblicando questi stralci mi costringo a rivederlo e a perfezionarlo, anche stilisticamente.
In che senso lavori?
Riduco, mando via il superfluo.
Perché sei rimasto in Calabria e non sei andato via come altri?
Perché restando qui tengo i piedi per terra, ho la convinzione profonda di tenere i piedi per terra, nella realtà, ma in una realtà precisa. Ci sto anche perché in un paese senza complicazioni, senza motivi di distrazioni, lavoro con tranquillità.
Che cosa pensi degli altri scrittori calabresi giovani e meno giovani?
Non si può riassumere in poche parole quello che si pensa di uno scrittore o di più scrittori. Ciascuno ha il suo tempo. Quelli prima di me hanno avuto il loro tempo, una loro atmosfera, delle attitudine diverse dalle mie. Quelli che sono venuti dopo hanno scelto ciascuno una strada.
Non puoi fare dei nomi?
Non conviene fare dei nomi. Io penso che se si deve esprimere un giudizio bisogna prima approfondire la conoscenza delle opere. Non si possono improvvisare giudizi. Posso dirti che sono amico di La Cava, lo vedo di tanto in tanto… Ah! Volevo dirti che in settembre dovrebbe uscire un mio volume di racconti con Scheiwiller (6), che è amico di La Cava di cui ha pubblicato un racconto. Tra me e Scheiwiller è nata molta simpatia. Ha scelto due racconti: La figlia del fattore e un altro, già pubblicato da Longanesi prima della guerra. Longanesi anche era un uomo di molto gusto. Ecco sì, il racconto s’intitolava Dopo la festa.
Solo La Cava incontri? E gli altri scrittori calabresi?
Nessuno, una volta ho visto Strati a Cosenza. Répaci è confinato a Roma, non viene in Calabria.
Dimmi, che cosa salveresti della Calabria o che cosa vorresti negare della Calabria e distruggere?
Vorrei salvare della Calabria la dignità dei poveri, dei contadini, degli operai nella sofferenza secolare. Vorrei distruggere la superficialità, la vanità e le ambizioni sproporzionate di certa gente nuova.
C’è qualcuno che apprezzi in Calabria in maniera particolare, che ti faccia dire: “Ecco un buon calabrese, ecco un buon italiano, ecco un uomo dignitoso”?
Non ti rispondo perché è difficile rispondere.
Rispondimi in negativo, allora. C’è qualcuno che invece nega tutte queste cose?
C’è un uomo politico che io ammiro perché è l’uomo più preparato politicamente e che bisogna rispettare per la sua lealtà, per il suo coraggio, è Giacomo Mancini. E’ l’unico uomo in cui io veda qualche virtù antica della nostra gente.
E dei giovanissimi?
Dei giovanissimi…potrei dire te.
Mi metti in imbarazzo. L’ultima domanda. Quale domanda ti saresti aspettata che ti facessi ? Una domanda che ti sarebbe servita per chiarire meglio il tuo pensiero, i tuoi libri, le tue posizioni ideali e culturali. Fattela tu stesso.
Domande me ne hai fatte tante e credo che comprendano tutto quello che io mi potevo aspettare e che hanno avuto le risposte in cui sono compenetrate le mie idee, i miei propositi attuali.
Sono stato esauriente nel domandare, dunque?
Sì, altrochè, hai dimostrato una cultura formidabile e una sensibilità. Sei stato esauriente in tutto. E poi, perché dovremmo avere la pretesa di aver detto tutto, non si può dire tutto in poco tempo, ma credo che l’essenziale l’abbiamo detto: tu nelle domande, io nelle risposte.
Note ( a cura di Caterina Adriana Cordiano)
- Il romanzo è rimasto inedito. E’ stato pubblicato con la Casa Editrice Pellegrini, a cura della Fondazione, solo nel 2005
- Si tratta de “ L’Arca”, anche questo lasciato inedito e pubblicato, sempre con la Pellegrini, nel 1997.
- La traduzione di “ Quasi una favola” di cui “Primitivo perenne” è il secondo racconto” è stata portata a termine dalla studiosa francese Ginette Herry, esperta di teatro, con la collaborazione della Fondazione, dall’editore Circè di Strasburgo nel 1998. Allo stesso modo e nello stesso anno la Herry con Robert Gironès, hanno curato la traduzione e la sceneggiatura teatrale di “ Quasi una favola” ( “ Gregoria de Calabre”) , andata in scena nei teatri di Moulhouse e di Strasburgo con la compagnia teatrale “Scarface Ensamble” ( regia di Elizabeth Marie). “ Primitivo perenne”, curato in versione radiofonica da Ginette Herry, è stato trasmesso dalla radio francese nell’anno successivo (1999). Degli eventi si sono occupati diffusamente le riviste teatrali e culturali francesi.
- Per fortuna non tutti i manoscritti sono andati persi mentre le stesure dattiloscritte dei romanzi, in particolare quelli lasciati inediti, insieme a tutte le altre “ carte” dello scrittore, sono state completamente recuperate perché custodite nelle sua casa natale, in paese.
- Lo scrittore parla di “ La dittatura”, più volte rivisto e di cui si posseggono tutte le stesure. Il romanzo è stato pubblicato, sempre a cura della Fondazione, nel 2002 con la Pellegrini.
- Il volume con Scheiwiller non è mai stato pubblicato. Anche in questo caso i due racconti ( lunghi) di cui parla lo scrittore saranno pubblicati dalla Pellegrini nel contesto del piano editoriale concordato con la Fondazione che prevede pubblicazioni e ristampe relativi a tutta l’opera di Fortunato Seminara.
( intervista rilasciata il 27 marzo 1980 e pubblicata in “ Ritratti calabresi” – ed. Periferia, 1993)