il 14 maggio 1981
Premetto che non sono arido erudito, il quale se ne va in giro con le sue schede piene di nomi, di date e di nozioni raccontate nei libri, ma uno scrittore che indaga l’uomo e la realtà sociale, in cui vive ed agisce e crea storie e personaggi. Premetto ancora che le idee esposte in questa conferenza non sono nozioni raccolte nei testi di storia letteraria, ma nella maggior parte intuizioni e libere interpretazioni personali.
Prima di cominciare permettetevi una protesta contro gli editori italiani, che da alcuni anni con vari pretesti esercitano verso di me una specie di boicottaggio, rifiutando di ristampare le mie opere esaurite e di pubblicare le nuove e costringendomi, se non voglio rassegnarmi al silenzio, a fare copie fotostatiche e ricorrere a piccoli editori di provincia inesperti. Una protesta in modo particolare contro l’editore Einaudi, piemontese, che dopo avere accettato una mia trilogia, fatto il contratto e pagato l’anticipo, ha rifiutato di pubblicarla; che dopo avere pubblicato due miei romanzi ed una trilogia, esauriti in breve tempo, ha rifiutato di ristamparli nonostante che uno di essi (Il Vento Nell’Oliveto), già tradotto in inglese e portoghese, sia stato di recente tradotto in francese ed abbia ottenuto il gradimento di un editore francese. Contro gli editori Garzanti e Mondadori di Milano, i quali nelle loro collezioni di tascabili hanno pubblicato anche la feccia della narrativa italiana e straniera, ma hanno rifiutato di accogliervi i miei romanzi, il cui valore è stato riconosciuto dalla critica più valida. L’azione di questi editori è paragonabile a quella dei criminali calabresi che nel Natale del’75 incendiarono la mia casa e distrussero libri e manoscritti. Tre scrittori calabresi in pochi anni, due poeti e un prosatore, trascurati dagli editori, sono morti suicidi nella solitudine e nell’abbandono. Io è certo che non darò mai a costoro tale spettacolo e tale soddisfazione. In terra di Francia io scrittore calabrese sono stato preceduto da due illustri personaggi: Tommaso Campanella e Francesco di Paola. Il primo, dopo una vita travagliata e ventisette anni di carcere, accusato di cospirazione contro il Re di Spagna, vi trovò rifugio e pace; l’altro vi arrivò, preceduto da una fama di santità, chiamato da un re per giovarsi delle sue virtù taumaturgiche per la propria salute. Non vengo da voi a portarvi un nuovo messaggio religioso, né una nuova teoria estetica, o filosofica, né una scoperta scientifica mirabolante; ho solo l’ambizione, che voi giudicherete quanto fondata, di tracciare alcune linee di svolgimento della mia arte di narratore e illuminare alcuni aspetti, per farmi conoscere e capire. E prima che della mia arte voglio parlarvi della mia terra, la Calabria, che in un mio libro (L’Altro Pianeta) ho paragonata ad un pianeta lontano e sconosciuto, la Calabria fisica. L’altra, che mi porto dentro i miei pensieri, mi sono sforzato d’interpretarla e di trasferire l’essenza nei miei libri, dove, chiunque ne abbia voglia, potrà trovarla. Allo scrittore si offrono numerose occasioni, che qualche volta sono necessità, a cui non può sottrarsi, di manifestare le proprie opinioni su vari argomenti e anche di confessarsi: interviste, questionari per indagini letterarie, o politiche, per compilazione di antologie e di almanacchi, richieste di notizie e di chiarimenti da parte di studenti che svolgono tesi di laurea. Finché le sue risposte riguardano informazioni bibliografiche, rievocazioni di avvenimenti letterari e politici, a cui ha partecipato, rapporti con altri scrittori e con correnti letterarie, egli si muove a suo a suo agio; le difficoltà sorgono quando si chiede allo scrittore di sollevare il velo sulla propria vita e d’interpretare la propria opera. Che valore ha una sua confessione? E che valore l’interpretazione della sua opera? Non sarà questa parziale? Non somiglierà ad una difesa, come se si trovasse di fronte a giudici ostili, anzi ad accusatori? In ogni caso non bisogna credere che la sua interpretazione sia per assioma quella autentica, tanto meno l’unica. Benché non fuorviata dagli schemi e dai preconcetti che spesso intralciano i giudizi dei critici professionisti, pure è ugualmente soggetta ad errori e può cedere a suggestioni e influenze di vario genere. È una presa di coscienza posteriore alla creazione. È un giudizio sulla propria creatura. Talvolta gli autori sono irritati e indignati dai giudizi dei critici, come se i critici profanassero il loro tempio. Neppure Manzoni andò esente da queste suscettibilità, anzi moti di ribellione. Una volta che un critico si provò a scoprire le ragioni recondite d’una sua opera, esclamò: “Ma quest’uomo pretende di saperne più di me.” E chi sa che non avesse torto, perché il critico può riuscire a conoscere l’opera d’uno scrittore meglio del suo autore, come il fisiologo conosce anatomicamente il bambino meglio della madre che l’ha generato.
Comunque, non è facile per un autore giudicare la propria opera. L’interpretazione che può dare della propria opera è una delle tante interpretazioni che di essa si possono dare; può fornire, se mai, qualche lume, aprire qualche spiraglio a chi si accinge a studiarla. Ma più difficile per un autore è parlare di sé, svelare la propria natura, le inclinazioni, le debolezze, anche le manìe. Lo trattiene un senso di comprensibile pudore; gli mette ostacoli e preclusioni il timore di portare alla luce una parte di sé, che conviene mantenere segreta e custodire nel profondo, di strappare bruscamente il velo quasi di mistero che lo avvolge e lo difende dalla curiosità indiscreta. Si può comprendere che il poeta abbia bisogno di circondarsi di cautele, abbia bisogno intorno a sé d’un territorio riservato, che non sia calpestato da piedi estranei, dove non penetri occhio indiscreto e lui possa muoversi in piena libertà. Ma poi, riflettiamo, un autore conosce veramente se stesso? È capace di giudicarsi senza indulgere anche ad una certa civetteria, ad un compiacente mito che si è fatto di se stesso? Capace di buttare dal piedistallo la statua, che l’adulazione altrui e la propria vanità gli hanno eretto? E quale è d’un autore l’immagine autentica: quella che si ritrova nella sua quotidianità, o quella che le sue opere rispecchiano? (perché nelle sue opere, anche in quelle che non sono scopertamente autobiografiche, un autore lascia sempre una parte di sé.) Vedete quante domande e quanti dubbi. Ed io, per non essere costretto a mentire, preferisco comunicarvi della mia vita, se v’interessano, le poche notizie scarne, che sono riportate nel risvolto della copertina del mio romanzo “La Masseria”.
“Fortunato Seminara è nato a Maropati, villaggio calabrese della provincia di Reggio, nel 1903. Iniziò gli studi in Calabria, frequentò il liceo a Pisa e quindi l’università a Roma e a Napoli, dove si laureò in legge. Figlio di genitori contadini, fu il primo nel suo villaggio a rompere la tradizione per cui soltanto i figli dei ricchi venivano avviati agli studi. Cominciò a scrivere giovanissimo, ma poi distrusse tutti i suoi scritti. Ritornò più tardi al lavoro letterario in seguito ad amare esperienze. Ha scritto parecchie opere di narrativa e di teatro”.
Questo Seminara sarei io, se vi pare. Ma quale è la mia intima essenza, quali sono i miei pregi e i miei difetti? Quale l’apparenza e quale la realtà? Invece d’inseguire una verità inafferrabile e rompersi la testa in dubbi pirandelliani o amletici, v’invito alla conoscenza della mia narrativa, alla quale mi sforzerò d’introdurvi con un discorso generale senza riferimenti specifici alle singole opere, che sono sconosciute alla maggior parte di voi, e con l’esposizione dello spirito che informa il mio lavoro. Deliberatamente non mi inoltrerò in sottili disquisizioni teoriche, né adopererò una terminologia rigorosamente ortodossa; il mio è un linguaggio da narratore anche quando mi accade di esprimere giudizi critici. Del resto confesso che per varie ragioni sono stato sempre un po’ diffidente verso la critica, le sue consacrazioni e dissacrazioni, la sua abilità nel sezionare l’opera d’arte come il chirurgo seziona un cadavere e catalogarla, distinguere e sottilizzare. Classicismo, romanticismo, verismo, realismo, surrealismo, ecc. Per me narratore, creatore di personaggi e indagatore di stati sommersi della coscienza, sono categorie scolastiche di scarsa utilità. Possono avere un valore di orientamento per gli studiosi.
In una stessa opera d’arte si può trovare l’elemento romantico accanto al classico, misto il romantico col verista e col realista; e l’opera d’arte, se ha vitalità, non perde niente del suo valore. Nella creazione artistica cadono le frontiere fittizie, nel fuoco della creazione, come in una fornace, bruciano materiali diversi, e si fondono metalli diversi. Un giudizio del Croce starebbe a confermarlo: “I caratteri dell’arte precedente si trovano anche nella susseguente e quelli della susseguente nella precedente e anzi nello stesso artista è sovente l’una e l’altra tendenza”. L’artista non è tenuto a rendere conto a nessuno di se e del suo intimo travaglio, tanto meno alla critica. Che per fortuna viene dopo. I tentativi di prevenire l’arte e dettare regole, ché questa ambizione ce l’ha certa critica, possono fuorviare i deboli, ma non credo che ottengano altri successi. Quando, dopo essermi fatto la mano coi primi racconti pubblicati su settimanali e poi in parte raccolti in volume col titolo “Il mio paese del sud”, mi accinsi, io uomo del Sud, ad approfondire la mia esperienza e allargare il quadro della mia narrativa, mi domandai quali interessi, quali passioni e anche aspirazioni agitassero nel nostro tempo la società meridionale, quali ne fossero i fermenti profondi. Dei miti, che avevano formato argomento e nutrito la narrativa dell’800, alcuni erano crollati, altri avevano perduto il significato, il vigore e i colori sanguigni d’una volta: il brigantaggio col suo alone romantico, onore e drammi dell’onore, la “roba” intesa come bisogno e lotta primordiale per sussistere. Certamente c’erano ancora la proprietà, la ribellione alla legge e anche l’onore coi suoi oscuri e truci drammi; ma andavano esaminati e rappresentati in modo diverso dal passato, perché non erano uguali in un contesto sociale che pure nella sua arretratezza aveva risentito dell’influsso di movimenti ideologici, di correnti rinnovatrici che avevano investito il mondo. L’evoluzione della società su basi industriali, l’apparizione delle masse operaie sulla scena mondiale con le loro rivendicazioni, il marxismo e la concezione materialistica della storia e una grande rivoluzione, quella russa, non potevano non avere dei riflessi anche nella società contadina meridionale. L’emigrazione stessa, portando le masse meridionali a contatto con una diversa civiltà, fu un veicolo di nuove idee. Mi accorsi che, pure immobile e appesantita dalle scorie d’una secolare arretratezza, la società meridionale era agitata da passioni e fermenti nuovi e aveva le sue aspirazioni. Aspirazioni, che significano inquietudine, insoddisfazioni, scoperta dell’ingiustizia sociale, dei difetti d’un meccanismo che non funziona e che potrebbe funzionare meglio, e volontà di cambiare e rimediare. Avere aspirazioni significa entrare nella dialettica dell’evoluzione sociale, la quale si può compiere con le riforme, o con la rivoluzione, ciò che dipende meno dai programmi dei partiti e dalla volontà e dall’azione individuale che dal concorso di eventi storici e dalla maturazione di condizioni favorevoli.
E perciò nelle mie opere ad un Sud romantico, o mitico e favoloso, o barocco e picaresco, ad un Sud pittoresco di altri scrittori si contrappone un Sud reale e scarno in evoluzione. A persone rassegnate, o eroi romanticamente ribelli si contrappongono persone coscienti dei propri diritti e decisi a farli valere. La capacità di rappresentare la nuova realtà sociale è stata frutto, oltre che di lungo studio, anche di esperienza e di partecipazione; ed ha comportato rigore d’indagine e durezza di giudizio; ad ogni modo un atteggiamento che non indulge ai facili entusiasmi, a sdilinquimenti sentimentali e ad ipocrisie caritatevoli, un atteggiamento realistico. Anche pessimista, ma nel senso d’una ricerca rigorosa dell’essenziale e rifiuto del superfluo e dell’effimero: un pessimismo stimolante. Nel’56 un nostro scrittore e critico G. B. Angioletti, intervenendo nel dibattito promosso dalla rivista “Prospettive meridionali” sulla letteratura meridionale, scriveva: “Nei miei frequenti contatti con scrittori e studiosi stranieri ho notato più volte che l’interesse per la letteratura italiana contemporanea vada sempre più orientandosi verso la narrativa di autori e argomenti meridionali; e quando chiedevo la ragione di tale preferenza, mi sentivo invariabilmente rispondere che nel Sud italiano c’è una “autenticità” assai maggiore di quella che si può trovare in altre parti della penisola, e che proprio il riflesso artistico di tale carattere è quanto di più consolante un lettore di libri può scoprire oggi in Europa.” Diceva gli scrittori meridionali “i più convinti fra tutti gli scrittori italiani” e credo che per convinzione intendesse anche impegno.
Poi accadde un fenomeno il cui significato si può ricavare da certe polemiche astiose con intenti di rivalsa da una parte e da alcuni cedimenti dall’altra. Venne il disimpegno. E può darsi che la gelida bora, discesa dal Nord, cioè da una società che non ha vecchi problemi, o può fingere d’ignorarli e anche crearsene di artificiosi, abbia investito e piegato qualche scrittore meridionale indifeso, che era anche tra i più ambiziosi, tra coloro che corrono dietro le mode e cercano il successo ad ogni costo; sicché ci fu chi credette esaurito il proprio compito e impallidito il proprio messaggio; qualcun altro, che scambiando l’arte col documento e con la cronaca, giustificò la propria inerzia col cambiamento delle condizioni economiche e sociali delle popolazioni del Mezzogiorno. Senza dubbio la narrativa meridionale, anche quella non di ispirazione sociale e dichiaratamente protestatoria, è nata in un clima particolare ed ha un proprio carattere e direi un proprio sapore. Ha stimolato e accompagnato la protesta politica, che saliva da una parte della nazione lasciata ingiustamente in secolare abbandono e a sua volta è stata da essa stimolata e incoraggiata; ma la più valida non è stata solamente impegno sociale e protesta, è stata anche fatto artistico e letterario, è stata poesia. Dopo questa parentesi riprendiamo il discorso sulla mia opera di narratore. Alvaro, Verga e Deledda sono i riferimenti di rito per molti critici che si sono occupati delle mie opere. (anche in un lungo profilo inserito nel volume “I Contemporanei” della Storia della Letteratura Italiana della Marzorati). Ora tali accostamenti potrebbero inorgoglirmi e certamente mi onorano, ma per essere validi, si richiede discernimento; bisogna stabilire con rigore le analogie e le differenze, dando a ciascuno il suo. Se si vuole affermare un dato comune a me ed a quegli scrittori, cioè la meridionalità, colore, umore, fermenti, calore di passione e di polemica sociale, niente da obiettare: tale dato è innegabile. Ma non occorre molto acume, per esempio, per notare le differenze che si possono riscontare tra la mia arte e l’arte di Alvaro oltre la differenza di formazione culturale e di generazioni. La sua osservazione si estendeva in ampiezza più che non penetrasse in profondità: glielo imponeva il mestiere di giornalista, che esercitò tutta la vita. Costretto ogni giorno a fornire il materiale al giornale, era obbligato a cercare sempre nuovi argomenti, spigolare in numerosi campi e afferrare idee e impressioni frettolosamente: la varietà e la novità a scapito dell’applicazione costante su un unico argomento. Più attitudine al descrivere che al rappresentare. La mia collaborazione alle terze pagine di giornali è stata invece sporadica e senza pretesa di professionalità. Nati tutti e due nella stessa regione, ma uno emigrato e quasi sradicato; l’altro, io, con le radici profondamente abbarbicate alla mia terra ed uno dei pochi scrittori che abbia resistito nell’inferno calabrese. Uno, Alvaro, dal quale la realtà è vista con la mediazione del mito e della favola; l’altro, io, che l’ho vista e rappresentata, per usare un’espressione tecnica, in presa diretta e senza veli. Uno, dopo una lunga carriera letteraria con numerose opere, che nel tempo subirono varie suggestioni, è approdato all’utopia di “Belmoro”. In ciò si scorge una lontana parentela con gli utopisti calabresi: Campanella e Gioacchino da Fiore. In me c’è rifiuto di tutte le utopie ed è certo che resterò fino alla fine coerente alla mia tematica. Con quanto detto non ho la pretesa di avere esaurito il discorso su Alvaro, che è scrittore d’ingegno robusto e di vari interessi. Fu moralista e credo che il meglio di lui si trovi nelle note di costume sparse nei suoi articoli di giornali e nei diari.
Ora vorrei provarmi a rilevare, tra le somiglianze, alcune differenze che si riscontrano tra l’opera di Verga e la mia. Premesso che siano vissuti in epoche diverse, lontane l’una dall’altra con in mezzo avvenimenti che hanno mutato il mondo, una prima osservazione è questa: benché nell’opera di Verga si trovino di fronte antagonisti possessori di ricchezza e poveri, oppressori e oppressi, chi fa il male e chi lo riceve, manca nei personaggi delle storie una coscienza e solidarietà di classe, che è fatto della società moderna. Un barlume di tale coscienza non si ritrova neppure in alcune rivolte delle plebi contadine, che erano esplosioni libertarie, prodromi e annunzi di più vaste agitazioni, di quelle eruzioni che più tardi incendiarono il Mezzogiorno. È rivolta, o opaca rassegnazione. Alla ribellione succedeva il ritorno alle condizioni di prima: dopo il sussulto violento i ribelli piegano le spalle sotto il peso d’un destino immutabile. L’uomo è solo, sia che comandi, o ubbidisca, sia che languisca nella miseria, o si arricchisca, sia che ami, o odi: uomo assoggettato alle proprie passioni e in potere del destino, o fatalità. Il povero, non avendo coscienza sociale, non può avere prospettive e volontà di riscatto: si abbandona al destino ed è vinto. È vinto anche quando si rivolta, perché la sua azione non è rafforzata dalla solidarietà di coloro che, pure soffrendo come lui ed avendo i suoi stessi interessi, avrebbero ragione di lottare al suo fianco.
Per rappresentare con realismo e verità la condizione degli umili Verga non ha avuto bisogno dei suggerimenti di una ideologia; gli è bastato guardarsi attorno e osservare la società, le sue ingiustizie, la sua sopraffazione dei potenti sui deboli e i suoi crimini. Nell’opera di Verga manca l’atteggiamento paternalistico, che è invece del Manzoni, verso i poveri e i derelitti. Manca la Provvidenza (La “Provvidenza” affondò nel mare in tempesta), che guida, mette a dure prove i deboli per i suoi fini imperscrutabili e alla fine viene in loro soccorso. (Ricordate “I Promessi Sposi”: “Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande…) Verga osserva i casi con distacco aristocratico: è il “galantuomo” che si volge con una certa condiscendenza a considerare le sofferenze dei poveri. Non giudica, quindi non condanna, né assolve; solamente compatisce e compiange. L’impersonalità è il canone del verismo. A Verga non si addice l’attribuzione di una ideologia socialista, che presuppone aspirazione e disegno di mutamento, per alcuni suoi atteggiamenti pietosi nel considerare le sofferenze degli umili. (Nella novella “Fantasticheria” c’è una riprovazione esplicita con cenni polemici dei costumi dei ricchi al confronto delle sofferenze dei poveri, ma rimane fine a se stessa e nella “Nedda”, riprende schemi cari al sentimentalismo socialeggiante degli epigoni manzoniani). Non poteva essere socialista per nascita, educazione e interessi. Si può affermare che fu un conservatore illuminato. Ma l’artista può essere, o credere di essere, nei suoi comportamenti personali, una cosa, e un’altra risultare le sue opere rette da una propria logica, che possono produrre un effetto diverso dalle sue convinzioni. C’è nella letteratura francese un esempio famoso: Balzac. Il legittimista Balzac nella “Commedia Umana” rappresentò le condizioni della società del suo tempo con cosi acuto realismo da indurre il rivoluzionario Engels a proclamarlo: “maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e del futuro”. Dalle sue opere dichiarò di avere imparato “più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statisti di professione di questo periodo messi insieme”. Questa credo che sia la ragione per cui all’opera di Verga da alcuni si attribuisce un valore sociale nel senso moderno di denunzia. In una lettera al Capuana del 5 giugno 1885 dopo l’insuccesso del suo lavoro teatrale “In portineria” il Verga scriveva: “Come tu dici, “In portineria” è venuta così perché cosi l’ho voluta… Ho voluto che il dramma fosse intimo rigorosamente, tutto a sfumatura d’interpretazione, come succede realmente nella vita; ed era in questo senso un altro passo alla ricerca del vero”. A parte il fatto che nelle enunciazioni teoriche del Verga è difficile trovare rigore e precisione, è dubbio se da ciò che scrive si possa ricavare che il reale è il mezzo per giungere al vero, oppure che il reale e il vero nella sua concezione coincidono. Che cosa è il vero? È una categoria morale. Per qualcuno, come il romantico cattolico Manzoni, il vero si colora di significati religiosi: il vero è santo: “ Il santo vero mai non tradir” dice. Nel vero mi pare si configuri una nozione certa e acquisita, una convinzione come la fede. Il reale invece è una nozione esterna all’uomo, ha un valore scientifico ed è da indagare e conquistare di continuo, perciò elemento propulsore di progresso. Nei veristi il vero sembra confondersi col reale. Non so se sono riuscito ad esprimere chiaramente questi concetti. Questa scorsa nel verismo era necessaria per approdare a ciò che i critici hanno consentito di chiamare neorealismo che col verismo ha uno stretto legame di continuità. Io credo che una delle differenze, se non principale, tra verismo e neorealismo, si possa enunciare in questo modo: che nel neorealismo l’uomo, acquistando in misura maggiore e più chiara la coscienza dei rapporti e dei conflitti di classe, scopre i difetti e l’ingiustizia d’un sistema sociale e dimostra la volontà di cambiarlo, l’aspirazione ad una migliore struttura della società. Aspirare al mutamento significa introdurre nella vicenda umana una dialettica. Significa intravedere uno stadio avanzato di progresso e impegnarsi a raggiungerlo sia pure gradatamente, con piccoli passi. (Anche uno sciopero è rottura d’una staticità, rottura di una crosta che avvolge e imprigiona ciò che deve essere libero e muoversi, liberazione delle forze che danno movimento alla storia). È appunto questo, secondo me, il significato della modernità, diversa dal “mutare tutto per mutare niente” gattopardiano, diversa anche dalla “renovatio” gioachimita e campanelliana, che era visione, utopia, profezia. Così il neorealismo rappresenta un momento più avanzato nell’evoluzione del verismo; ne prolunga e giustifica la vitalità, colmandone alcune lacune.
Poste queste premesse e stabilite queste differenze, possiamo procedere nella trattazione della mia opera. Se proprio qualcuno volesse ricavare dalle mie opere una teoria estetica, io credo che si possa così comprendere: realismo e chiarezza solare e mediterranea, appresa dai classici italiani e anche dai francesi. Una delle mie letture preferite durante il mio breve esilio in Svizzera e in Francia nel lontano 1930 furono Gide e gli scrittori della N.R.F. Fui in quegli anni un assiduo lettore della N. R. F. Eccetto poche isole industriali, l’economia meridionale è basata sull’agricoltura, la popolazione agricola forma la maggioranza e la civiltà è civiltà rurale. La mia opera riflette questa civiltà; le vicende dei miei romanzi, eccetto uno pubblicato (Donne di Napoli) ed un altro ancora inedito sulla dittatura ed eccetto alcuni racconti, si svolgono in un ambiente rurale: il mondo rurale è il mondo a me congeniale, è la piega calda del terreno, in cui il seme della mia narrativa è caduto ed ha fruttificato. Del resto è stato il territorio lo scenario di tanta narrativa meridionale, anche se i protagonisti non sono stati sempre contadini, ma pescatori, solfatari, o briganti. Nella narrativa calabrese in particolare (direi anche nella cultura e in questo caso risalirei a Tommaso Campanella) dal Padula di “Persone in Calabria” al Misasi fino agli scrittori contemporanei, pur con diversi atteggiamenti, si riscontra un dato costante: lo sguardo rivolto alla realtà circostante, uomini e ambiente, con preferenza agli strati sociali più bassi. E ciò si spiega col fatto che la nostra realtà è stata sempre cosi drammatica, da non lasciare alcuna illusione, da non permettere, come altrove, alcuna attenzione, né evasione. Basta pensare alle tante dominazioni straniere che si sono succedute nella nostra regione e alle conseguenze economiche e sociali che da esse sono derivate; alle incursioni dei pirati, alle quali le nostre coste erano esposte. Pensare al malgoverno degli spagnoli e alla tracotanza dei baroni, che ridussero la Calabria in estrema miseria. Ecco l’analisi severa e spietata, che il Campanella fa delle condizioni delle popolazioni calabresi nel’600. Dopo avere affermato che la gente era costretta a fuggire dalle proprie terre e talvolta addirittura fuori dal Regno, a rubare, a uccidere per sfamarsi e sopravvivere alle tante cause di morte, come la denutrizione, l’usura, la peste ed altri flagelli, per queste e non per altre ragioni, seguita “molti non pigliano moglie per non far patire queste miserie ai loro figli, e le femmine diventano puttane per un pezzo di pane. Oggidì si vede un uomo che ha centomila scudi di rendita, e poi mille uomini non hanno tre scudi per uno. Ora questo delle centomila occupa la rendita dei mille, le spende in cani, cavalli, buffoni, stoffe dorate e puttane, che è peggio. E se litiga il povero contro loro, non può avere giustizia, onde si fa fuoriuscito, o muore in carcere, ed il ricco deprime chi gli piace, perché il giudizio da lui dipende, mentre per favori si fanno i giudici, o per denari per lo più, massime in terre piccole”. Nel 1806 i francesi, che occupavano la Calabria, la trovarono in condizioni, che gli storici definiscono spaventose, tale da apparire ai visitatori stranieri come il paese dei “Selvaggi d’Europa”. Questa nostra realtà, pure atteggiata nelle varie forme e tendenze letterarie è stata sempre presente alla coscienza degli scrittori calabresi. Ecco, ho prima accennato ai contadini e alla civiltà contadina. I contadini nella disgregata società meridionale, nella quale è mancata una moderna borghesia, che fosse mediatrice tra la grande proprietà fondiaria e il proletariato, sono l’elemento più omogeneo, serio e direi drammatico. Direi di più, nella classe contadina si riflette e si scarica il dramma della società meridionale; questa classe ne porta tutto il peso. Allora vediamo a volo d’uccello quale è stata la condizione del contadino nei diversi secoli, come viene rappresentata nella letteratura e quali mutamenti subisce nella evoluzione sociale. Servi e schiavi nell’antichità. Nella novellistica del ‘300 e del ‘400 la gente del contado è rappresentata come rozza, dal cervello grosso, superstiziosa, balorda e facile ad essere raggirata; oggetto di beffa e di sollazzo per signori e cortigiani. “…ne pigliano grandissimo diletto” dice il Sacchetti. E altrove lo stesso Sacchetti la definisce “piacevole e semplice”. La città mette in caricatura il contado: era il vituperio del villano. I giullari nelle loro “dicerie” spesso rappresentano per il sollazzo dei borghesi e dei signori la “satira del villano” in termini di grossolano scherzo offensivo. Che cosa sono l’idillio, la favola pastorale e il dramma pastorale? Nella “Nencia di Barberino”, il capolavoro di Lorenzo il Magnifico, si celebra l’amore di due contadini, Vallera e la Nencia; si fa la lode delle seduzioni, delle ritrosie, degli struggimenti, delle profferte e delle promesse di questa amorosa agreste. Ma è una cosa seria? No, è un artificio. Si trasferiscono nei modi e nei ritmi tradizionali dei “rispetti” le espressioni e gli atteggiamenti della parlata contadinesca; si nobilita con un’adesione linguistica la tradizionale satira del villano.
“La favola di Orfeo” del Poliziano e “L’Aminta” del Tasso non sono altro che un’evasione della vita quotidiana in un mondo fiabesco, dove dominano solo i sentimenti. Il mondo pastorale offre l’immagine d’un felice stato di natura. Però nell’Aminta il poeta per bocca d’un personaggio svela la verità sotto l’artificio:
gli astuti e scaltri cittadini
e i cortigiani malvagi molte volte
prendommi a gabbo e fanno brutti scherni
di noi rustici incauti…
Nel ‘700 col Parini la vita rustica e riguardata è riguardata senza intenzioni d’artifici, né di satira. “Il suo amore per la vita campestre – dice il De Sanctis – è accompagnato con la più tenera sollecitudine per l’umanità. “La satira del Parini si rivolge verso i signori oziosi, che vivono del sudore del contadino. “Qui l’ironia – dice il De Sanctis a proposito del “Giorno”- è il risveglio della coscienza rispetto ad una società destituita d’ogni vita interiore. Per Manzoni i contadini e in generale gli umili sono prossimo da amare e compatire; su di loro piove la carità cristiana come una rugiada ristoratrice. Il suo paternalismo li priva della libertà e di tale privazione li compensa con l’affidarli alla Provvidenza, dalla quale sono guidati attraverso prove e sofferenze, che sembrano necessarie per la loro salvezza. È la morale cristiana. È inutile che mi dilunghi a riportare episodi ed espressioni dei “Promessi Sposi” a prova di quanto affermo. Accenno ad alcune di queste: “la buona Agnese – poverette –povera giovane – figliol caro – caro giovane ecc. Lucia s’era abbandonata alla provvidenza” ecc.
Di Verga ho già trattato. La stessa fatalità domina nelle opere della Deledda, la quale risolve le situazioni col sentimento. Nelle sue opere si notano inclinazioni mistiche e scarsa fiducia nelle energie morali dell’uomo. Il fatalismo rassegnato delle prime opere “nei romanzi della maturità si scioglie e si purifica nell’idea cristiana – dice il Galletti – rimettendo alla Provvidenza il compito di regolare le partite e promuovere il bene”. In Manzoni, Verga e la Deledda, l’uomo sia che venga sottomesso al destino, o fatalità, sia che venga affidato alla Provvidenza, è privato della consapevolezza della propria condizione e della libertà e per conseguenza reso incapace di rivoltarsi e aspirare ad un mutamento. I contadini non sono protagonisti, cioè soggetti di storia, ma oggetti. Che cosa sono nelle mie opere? Il contadino nelle mie opere non è “il villico” del Decamerone, oggetto di riso, né il personaggio fittizio del dramma pastorale, né il personaggio del melodramma ottocentesco e del folklore siciliano, né il servo della gleba della narrativa russa, né il povero perseguitato e compianto del paternalismo manzoniano: è il mio compagno di sofferenza e di lotta. Non il mio prossimo da amare e compatire secondo il precetto cristiano, ma il mio pari oltre che il mio simile. E ciò non suggerito da un atteggiamento letterario, ma da una consapevole partecipazione; perché io, figlio di contadini in mezzo ai contadini ho passato la maggior parte della mia vita. Questo contadino si presenta sulla scena del mondo non per sollazzare i borghesi bontemponi, ma per raccontare la sua storia di dolori, di lotte, di drammi, di pazienza, renderne testimonianza e porre le sue rivendicazioni: dire insomma la sua parola e farla ascoltare. Personaggio serio, vero e non convenzionale, reale e non romantico coi suoi sentimenti e risentimenti, dominati dai bisogni fisici talvolta al limite della sussistenza, che conculcati in alcuni momenti, come un’energia complessa, esplodono. Si presenta sulla scena della storia, oltre che come individuo, come classe emergente.
Il carattere realistico e originale dei miei romanzi è messo in rilievo anche nei commenti stranieri. Nella traduzione inglese di “Il Vento nell’Oliveto” il libro viene presentato con queste parole: “…è una cosa rara nel mondo creativo, un’opera originale. Il tono è molto differente da quello della maggior parte dei romanzi italiani, che trattano della vita di campagna; perché di solito il romanzo italiano dei campi vede e descrive la vita dall’esterno….”. Nei miei romanzi e nei racconti, che sono oltre un centinaio, certamente non tratto solamente di contadini, ma anche di grandi proprietari, che hanno interessi opposti agl’interessi dei contadini, e dei loro contrasti a volte drammatici. Compaiono anche personaggi appartenenti ad altri ceti sociali: insomma il mio sforzo è rivolto a rappresentare una società interna nelle sue varie articolazioni, mettendo in evidenza la decadenza della nobiltà feudale e l’emergere degli strati proletari. La trilogia composta dai romanzi: Le Baracche – La Masseria – Terra Amara – (questo terzo ancora inedito) è un largo affresco che comprende mezzo secolo di storia d’una società, che da una costituzione arcaica e primitiva si evolve verso forme moderne. Per questo devo rimandarvi alla lettura delle mie opere. Difficoltà del mio lavoro: tante e gravi. Calarmi nei sentimenti e nei pensieri dei contadini ed elevarli a dignità artistica, adeguandovi il linguaggio, senza alterarli e senza creare eroi mitici, né romantici, né simbolici. Tracciare un quadro ravvivato dalla fantasia senza rompere i limiti del reale e del verosimile e senza alterarne i colori. Costretto ad inventarmi un linguaggio senza possibilità di seguire altri esempi; lontani i novellieri toscani, utile, ma non esemplare la lezione del Manzoni, inimitabile la scoperta del Verga (fu una scoperta, non un modello – dice il Sapegno.) Lo stesso Sapegno ha messo in evidenza uguali difficoltà contro cui si urtarono i veristi italiani: “ancora una volta – dice – toccava loro il compito di interpretare e tradurre in parole il disperato silenzio di una moltitudine estranea e lontana che non sarebbe stata in grado mai di riconoscersi nella loro opera…” E facendo il confronto tra veristi europei ed i veristi italiani (Zola e Verga): “al verista italiano era d’uopo foggiarselo (il linguaggio) risolvere l’assurdo problema di mettere in carta, in parole, quel silenzio che lo circondava”. (Appunti per un saggio sul Verga). Non so se vi sia riuscito e in che misura. Lo lascio giudicare ai lettori. E ancora una cosa da dire. Io non ho mai considerato l’attività letteraria come una competizione sportiva; né si confanno alla mia natura gli atteggiamenti e le stravaganze divistiche. Non mi sono mai affrettato a prendere posto in prima fila per attirare su di me i flash dei fotografi e i fari della pubblicità. Non curo, se proprio non li disprezzo, questi espedienti, surrogati della celebrità veramente meritata. Il mio lavoro è stato come un filo che si svolge giorno dopo giorno, anno dopo anno senza impazienze e senza deviazioni. Le mode letterarie non mi hanno mai attirato, appena mi hanno incuriosito. Con lo sguardo rivolto ad alcuni punti di riferimento, ho seguitato su una via che mi sono tracciata al principio, non chiuso in convinzioni dommatiche e settarie, ma aperto a suggerimenti e idee capaci di arricchirmi la mente e lo spirito. Deciso, se non fossi riuscito a vincere le resistenze degli editori, a lasciare le mie opere inedite. (non è più un segreto che il mio romanzo: Le Baracche, che segnò una svolta nella narrativa italiana, fu pubblicato dopo otto anni dalla sua stesura: 1934 – 1942).
Un lavoro che ha richiesto lunga pazienza e intera dedizione. Vi ho consumato gli anni migliori e le mie energie. Spero che questo sacrificio mi valga un riconoscimento maggiore di quello ottenuto finora e anche riconoscenza delle future generazioni, se non delle presenti, in una società rinnovata e più libera e anche nella mia terra, in una Calabria riscattata dalla secolare arretratezza e più attenta ai valori della cultura. Le mie radici sono in quella terra. E malgrado l’oltraggio subito con l’incendio della casa e la distruzione della biblioteca e di manoscritti, io voglio lusingarmi, che se il mio messaggio è stato accolto nel cuore e nella mente di un calabrese, esso sarà accolto nel mondo; perché il cuore e la mente d’un calabrese sono anche il cuore e la mente del mondo. Se un solo seme di ciò che io ho seminato è caduto nel cuore e nella mente d’in calabrese, esso potrà fruttificare nel mondo intero.”